Negli ultimi anni, l’espressione cloud repatriation ha iniziato a circolare con crescente insistenza nel lessico tecnologico. Dietro il clamore mediatico, però, si cela un fenomeno più articolato e decisamente meno ideologico di quanto si possa pensare. Non si tratti infatti di nessuna fuga dal cloud né di un ritorno nostalgico ai data center on-premise, bensì di un ribilanciamento strategico dei carichi di lavoro tra ambienti pubblici e privati. In questo articolo cerchiamo di capire cosa stia effettivamente accadendo e perché.
Cloud repatriation, quando il cloud trova il suo equilibrio
Per comprendere cosa significhi cloud repatriation nel 2025, bisogna fare un passo indietro. Nella sua fase iniziale, il paradigma cloud coincideva quasi esclusivamente con l’offerta pubblica degli hyperscaler globali: flessibilità, scalabilità, innovazione continua e modelli as-a-service rispondevano a ogni esigenza aziendale, in particolare per le imprese in fase di crescita o di trasformazione digitale.
Con il tempo, però, sono emersi alcuni nodi strutturali - in particolare legati alla trasparenza e alla prevedibilità dei costi, oltre che alla compliance - che hanno spinto molte organizzazioni a rivedere l’allocazione dei propri carichi di lavoro. Alcune aziende hanno ritenuto che i propri workload, soprattutto quelli core, fossero poco adatti a un’infrastruttura interamente gestita da terze parti, nonostante le rassicurazioni in termini di performance, sicurezza e protezione dei dati. La necessità di un controllo più diretto e di una governance più prevedibile – soprattutto sul piano economico – ha così riacceso l’interesse per ambienti privati, on-premise o in hosting presso cloud provider locali di fiducia.
Questa riconsiderazione non ha rallentato la corsa al cloud, ma ha rafforzato la traiettoria verso modelli ibridi e multicloud, più maturi e funzionali. La cloud repatriation non è dunque un’inversione di rotta, ma un tassello di un disegno più ampio: mantenere in casa - o comunque in ambienti completamente controllati - i sistemi più sensibili, e al tempo stesso continuare a sfruttare i vantaggi del cloud pubblico laddove offra un reale valore aggiunto, come la scalabilità pressoché illimitata e l’accesso immediato a tecnologie evolute (AI, analytics, servizi PaaS).
Perché le aziende valutano la cloud repatriation: le nuove leve decisionali
Quando si parla di cloud repatriation, spesso si tende a generalizzarne le motivazioni. Non si tratta di reazioni impulsive legate a fattori di costo o a singole esperienze negative, ma piuttosto al fatto che il contesto tecnologico, normativo e competitivo evolve continuamente, e con esso anche la riflessione strategica sul cloud.
Prevedibilità e sostenibilità dei costi
Il modello pay-per-use del cloud pubblico è stato per moltissime aziende una grande opportunità. Tuttavia, nel tempo le aziende hanno iniziato a sperimentare una crescita disordinata della spesa cloud legata a fenomeni come scarsa visibilità sui consumi reali o difficoltà a gestire picchi non previsti. In questo scenario, cui gli hyperscaler hanno comunque posto un freno con servizi dedicati, la repatriation è diventata una leva per recuperare controllo e prevedibilità, soprattutto per i workload stabili e ad alto utilizzo, che mal si prestano a logiche on-demand. Il ritorno a infrastrutture dedicate – interne o in hosting – consente di stimare con maggiore precisione i costi nel medio-lungo periodo e di evitare sorprese.
Sovranità del dato e pressione normativa
La repatriation può rappresentare una risposta concreta all’esigenza – sempre più avvertita in Europa – di garantire la sovranità digitale, un principio che mira ad assicurare che dati, processi e applicazioni critiche siano gestiti in conformità con le normative del proprio Paese o ambito sovranazionale, senza il rischio di ingerenze giurisdizionali esterne.
Il punto è che il modello cloud - per sua natura - è pensato per essere transnazionale, distribuito e resiliente, ma questa fluidità geografica, che rappresenta una grande forza dal punto di vista tecnico, può entrare in tensione con le esigenze di controllo normativo e regolamentare espresse da Stati, autorità e organismi sovranazionali.
Ogni Paese, infatti, vuole che i dati prodotti all’interno dei propri confini - soprattutto quelli strategici - restino soggetti alle proprie leggi, senza che normative esterne possano prevalere. La stessa Unione Europea ha avviato numerose iniziative in questa direzione, dal GDPR al Data Act, fino al regolamento DORA per il settore finanziario. Anche se nessuna norma impone esplicitamente la rilocalizzazione dei workload, è evidente che molti requisiti - come la data residency, la separazione giurisdizionale, la tracciabilità dei flussi o l’applicabilità delle normative UE - risultano più facilmente gestibili riportando in casa i propri dati e applicativi critici, o affidandosi a provider locali in grado di garantire un controllo operativo e normativo più diretto.
Controllo end-to-end e compliance
Questo tema è strettamente collegato al precedente. Man mano che i sistemi diventano più complessi e interconnessi, cresce anche il bisogno di un controllo fine e granulare sull’intera infrastruttura IT. In molte realtà, soprattutto enterprise, la necessità di dimostrare compliance by design a normative stringenti richiede visibilità totale sui processi, sulle configurazioni, sui flussi di dati e sull’interazione tra sistemi. La repatriation, in questi casi, diventa una scelta orientata a rafforzare la postura di conformità e a facilitare audit, tracciabilità e applicazione coerente delle policy interne.
Ottimizzazione delle performance (e della latenza)
Un ulteriore fattore che spinge le aziende verso la repatriation – soprattutto nei contesti industriali - è la necessità di prestazioni elevate, costanti e prevedibili. In alcune situazioni, come l’edge computing o i sistemi che richiedono tempi di risposta ultrarapidi (es. ambienti SCADA, automazione industriale, digital twin), il cloud pubblico può introdurre latenza non accettabile. Ritornare in ambienti privati consente di avvicinare il calcolo ai dati, migliorare la reattività dei sistemi e ottimizzare l’integrazione con gli impianti o le infrastrutture locali.
Cloud repatriation: quando ha senso davvero (e quando no)
La cloud repatriation non è una soluzione valida per tutti, né una scelta da fare sull’onda dell’emotività. Ha senso solo se inserita in una strategia consapevole, che consideri la reale natura dei workload, i vincoli normativi e la necessità di integrare in modo coerente ambienti pubblici e privati all’interno di un modello cloud enterprise maturo.
Non tutti i carichi di lavoro sono candidati ideali alla repatriation: ambienti produttivi sensibili alla latenza e sistemi mission-critical con requisiti stringenti di compliance e controllo possono trarre vantaggio da una gestione privata o locale, ma servizi dinamici, piattaforme di analytics o ambienti sperimentali (AI, in primis) possono essere più efficaci se ospitati nel cloud pubblico, dove scalabilità e velocità di innovazione sono eccellenti.
In questa prospettiva, il valore non sta tanto nel dove risiedono i workload, ma nel perché e con quale livello di controllo. Repatriare senza rivedere l’architettura complessiva può essere controproducente quanto restare vincolati a un modello cloud-first poco flessibile. La vera sfida, dunque, è essere capaci di costruire un ecosistema ibrido che unisca governance, agilità e sostenibilità.
Repatriation come parte della strategia cloud
In Kirey, accompagniamo le aziende in un cloud journey su misura, che punta a costruire un’infrastruttura efficiente, sicura e integrata con i processi aziendali.
Analizziamo ogni scenario partendo dagli obiettivi di business, dal livello di maturità digitale delle ’aziende e dai vincoli normativi e operativi. La repatriation può essere parte della strategia, ma non è un punto di partenza: è una possibilità da valutare con metodo, nell’ottica di garantire maggiore controllo, ottimizzare i costi e rafforzare la resilienza dell’IT aziendale.
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