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Kirey Group incontra Marta Boccazzi, ricercatrice della Fondazione Umberto Veronesi

Kirey Group

  

    Per il secondo anno Kirey Group sostiene la ricerca della dottoressa Boccazzi sulla correlazione fra infezioni contratte in gravidanza e disturbi neuropsichiatrici nella prole.

    Anche quest’anno abbiamo confermato il nostro supporto alla Fondazione Umberto Veronesi nella promozione della scienza e della ricerca, perché crediamo nel ruolo fondamentale della Fondazione per la conoscenza, il progresso e lo sviluppo di condizioni migliori di salute per la popolazione globale.
    Il nostro supporto, in particolare, è destinato alle attività di ricerca della dottoressa Marta Boccazzi, Ph.D. dell’Università degli Studi di Milano. L’abbiamo incontrata per parlare dell’oggetto delle sue sperimentazioni, ma anche di che cosa significa fare ricerca di laboratorio in Italia.

    Marta, quando hai capito che saresti diventata una ricercatrice? Qual è stato il tuo percorso?

    Ricordo il momento preciso in cui è nata la mia curiosità per l’ambito della ricerca: in quarta liceo, durante una lezione di scienze dedicata ai primi esperimenti di manipolazione del genoma. Ero molto affascinata dall’ingegneria genetica e dal percorso che porta alla scoperta. È stato allora che ho deciso che questa sarebbe stata la mia strada. All’università ho scelto biologia, che mi ha dato una visione d’insieme su vari ambiti, e con la specialistica mi sono laureata in biologia applicata alla ricerca biomedica. Dopo la laurea, ho iniziato il dottorato di ricerca in fisiologia umana, che mi ha dato la possibilità di proseguire i miei studi all’estero, a Salisburgo. È stata un’esperienza bellissima e difficilissima: è lì che ho imparato a lavorare in laboratorio, ma anche a cavarmela da sola, per la prima volta lontana da casa. Poi sono tornata in Italia e, dopo la fine del dottorato, ho iniziato a lavorare in un laboratorio di farmacologia, che mi ha portato a un secondo dottorato. È stato proprio allora che ho iniziato a studiare in ambito neurofarmacologico le cellule gliali, che tempo fa venivano considerate solo come cellule di sostegno per i neuroni. Con il passare degli anni è aumentata la consapevolezza del reale ruolo delle cellule gliali e della loro fondamentale importanza sia in situazioni fisiologiche che, soprattutto, in condizioni patologiche, perché sono le prime a rispondere a un qualsiasi tipo di danno, come traumi cranici, ischemie cerebrali, malattie neurodegenerative. In questi casi le cellule della glia “si attivano”, iniziano a reagire e impattano sul benessere dei neuroni. Oggi la ricerca si concentra, quindi, sulle possibilità di ristabilire la funzionalità neuronale intervenendo su questo tipo di cellule. Dopo il dottorato ho continuato i miei studi a Parigi e lì ho iniziato a focalizzare il mio interesse sulle patologie del neurosviluppo.

     

    Salisburgo, Parigi, il ritorno in Italia: quanto è difficile fare ricerca nel nostro Paese rispetto all’estero?

    Le esperienze all’estero sono state preziose perché fare ricerca in un contesto nuovo, con una lingua nuova, ha stimolato tantissimo la mia curiosità e aperto i miei orizzonti. La grande differenza è che, dal punto di vista economico, all’estero ci sono più fondi pubblici mentre in Italia purtroppo scarseggiano. Qui la maggior parte delle ricerche è sovvenzionata da privati, come Fondazione Umberto Veronesi, a cui sono grata per questo terzo finanziamento. Come me, tanti altri ricercatori possono proseguire nel loro lavoro grazie al sostegno della Fondazione Umberto Veronesi.
    Indipendentemente dal luogo, fare ricerca resta una sfida, un lavoro faticoso. Dico sempre agli studenti che seguo che il 90% degli esperimenti fallisce. Certo, è una gioia quando si riesce ad ottenere il risultato, ma prima bisogna mettere in conto molti fallimenti. È un continuo interrogarsi su cosa cambiare, come migliorare. In realtà non esistono risultati negativi, perché il dato negativo di per sé è solo un dato, che si utilizza ugualmente. Questo momento storico è difficile per la scienza, sembra che si stia diffondendo la convinzione errata che la scienza dica solo quello che vuole dire, anche se in realtà è esattamente il contrario. Quando si fa ricerca non si nasconde niente, anzi, si teme che qualcosa possa sfuggire e si ripete ogni esperimento.
    Proprio per questo è sempre più prezioso il lavoro di divulgazione scientifica portato avanti dalla Fondazione Umberto Veronesi, che riesce a spiegare studi e scoperte in forma semplice ma senza semplificazioni, con linguaggio chiaro ma non troppo tecnico per rendere accessibili a tutti concetti complessi.


    Su cosa si concentra la tua ricerca oggi? Come si svolge dal punto di vista pratico?

    Nell’ambito del neurosviluppo, la mia ricerca indaga i danni alle cellule gliali che avvengono durante lo sviluppo fetale e alle conseguenze che hanno sul bambino, così come sull’adulto. Patologie quali depressione, schizofrenia e disturbi dello spettro autistico presentano infatti una prevalenza maggiore nei soggetti nati da gravidanze con comprovate complicanze di tipo infettivo. L’infiammazione materna causa nella prole neuroinfiammazione, cioè un aumento di molecole infiammatorie e cambiamenti a breve e lungo termine a livello del sistema nervoso centrale. In questo contesto, al momento sto studiando l’impatto positivo che hanno l’attività fisica volontaria e l’alimentazione, su cui c’è grande interesse negli ultimi anni. Sappiamo già che questi due elementi hanno un importante effetto positivo, ma stiamo indagando il meccanismo d’azione che innescano a livello molecolare, per poi valutare in una fase successiva lo sviluppo di farmaci che lo possano replicare.
    Dal punto di vista pratico, la ricerca non è mai autoreferenziale e solitaria, perché i dati vanno sempre discussi. Lavoro in team con due supervisor, un collega e un tesista e le nostre giornate sono sempre diverse. Tutto dipende dalla fase dell’esperimento in cui ci troviamo: inizialmente c’è tutta la preparazione, lo studio, la pianificazione e l’ordine dei materiali; a cui si intervalla spesso l’attività didattica, la preparazione di congressi e paper. Altre giornate le passo interamente in laboratorio, fra pipette e microscopi. Infine, seguono sempre la raccolta dei dati e l’analisi statistica. Comunque, per me, le giornate migliori sono decisamente quelle in cui non apro il computer.


    A che punto sei rispetto agli obiettivi della tua ricerca? Cosa ti auguri per il futuro?

    L’ipotesi che sto cercando di dimostrare è molto chiara per me, ma non ci sono ancora riuscita. Ho fatto e sto facendo molti tentativi, alcuni dei quali hanno portato a delle piccole dimostrazioni, ma manca la dimostrazione finale. Tuttavia, in questo campo, è difficile sentire di aver raggiunto davvero un punto d’arrivo.
    A livello personale, per il futuro mi auguro di continuare a fare questo lavoro con la stessa passione con cui l’ho sempre fatto. Per la mia ricerca, la speranza è quella di riuscire a capire e dimostrare alcuni meccanismi che in futuro potranno servire a ricerche più ampie, legate al paziente. Ogni persona che fa ricerca in laboratorio sa di non poter avere la certezza che i propri studi arrivino un giorno all’uomo e, alcune volte, è difficile da accettare. Abbiamo a che fare con cellule e non con pazienti, ma questo non significa che ignoriamo il fatto che là fuori c’è qualcuno che aspetta le nostre scoperte. E questa è una grande responsabilità.


    Vuoi sostenere anche tu Fondazione Umberto Veronesi? Lo puoi fare qui. 

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